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25 luglio 2022 | articoli

Adriano Olivetti: un italiano del Novecento

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Nel 1955 fu questo il discorso che Adriano Olivetti fece durante l’inaugurazione della fabbrica di Pozzuoli; una bellissima costruzione che si affaccia sul Golfo di Napoli di fronte all’isola di Procida.
 

Queste riflessioni possono essere calate nelle vicende industriali odierne?  Le imprese (pubbliche o private) quali risposte danno a questi temi proposti da Adriano e prima ancora da suo padre Camillo? 
 

Su queste domande ho voluto dialogare con Paolo Bricco, importante giornalista e saggista, inviato speciale del “Sole 24 Ore”, esperto di storia contemporanea ed economica. Mi sono rivolta a lui mossa anche dal desiderio di approfondire alcuni argomenti trattati nel suo recentissimo libro “Adriano Olivetti, un italiano del Novecento” – Rizzoli. 

Ringrazio Paolo per avermi concesso questa possibilità.
 

Paolo, vorrei provare a calare la tua ampia riflessione su “ADRIANO OLIVETTI un italiano del Novecento” nelle vicende industriali che stiamo vivendo. Tu sei un osservatore attento della vita economica, sei una delle firme più importanti de “Il Sole 24 ore” e sei anche molto impegnato nella indagine storica. Hai scritto anche un libro su un altro protagonista della “Olivetti”: l’ing. Carlo De Benedetti, ovvero colui che ha trasformato e poi concluso una straordinaria vicenda industriale e sociale. Hai esaminato 70 anni non solo di una storia aziendale, ma di una grande trasformazione culturale. Si può parlare di continuità o le differenze sono cruciali?
 

È una domanda importante e complessa. La risposta sta nella oggettiva differenza di due modelli che appartengono a periodo storici diversi. Adriano Olivetti eredita l’azienda dal padre negli anni ’30 e la gestisce fino alla morte nel 1960. Anni segnati dalla guerra e dalla ricostruzione, nei quali la sua leadership si è espressa in modo assoluto. È capace di attrarre attorno a sé le migliori menti tecnologiche ed i più prestigiosi intellettuali non solo italiani e con loro sviluppa prodotti e progetti innovativi per il mercato e in controtendenza per la società. 

Carlo De Benedetti è in azienda dal 1978 dal 1996 in un contesto radicalmente diverso; era rimasto “solo” il nome Olivetti ma, al suo arrivo, la famiglia non è più attivamente presente da più di oltre 10 anni. Sono anni dinamici nei quali si vive una diversa evoluzione della modernità.

Per Adriano la fabbrica doveva essere coerente con la cultura ed il modello organizzativo “fordista”, il più idoneo in quel momento per le grandi produzioni seriali (centinaia di migliaia di macchine da scrivere e da calcolo). Accompagnava questa convinzione con il costante pensiero (quasi ossessivo) che si dovesse scongiurare la distruzione dell’uomo, della sua identità come vedeva accadere in altre imprese ed in altri Paesi. 

Con Carlo De Benedetti siamo già in una fase di uscita dal fordismo; cresce la presenza dominante dell’immaterialità. Adriano ha di fronte un’azienda elettromeccanica che aveva intuito la strada dell’elettronica. De Benedetti opera in un contesto già dominato dalla informatica e ne deriva una organizzazione manageriale differente: assorbe le nuove istanze sviluppate soprattutto negli Stati Uniti (la pianificazione e controllo, la reportistica che confluisce nel bilancio consolidato che la Olivetti ha tra le prime società in Italia). Viceversa, Adriano non aveva contezza di come andasse concretamente la sua azienda dal punto di vista contabile, non si occupava degli aspetti amministrativi. 

Sono quindi due modelli che differiscono non solo nei prodotti (non si dimentichi che De Benedetti porta la Olivetti verso la rete, il digitale), ma anche nella gestione manageriale e di conseguenza nella gestione delle risorse umane. La “visione” di Adriano finisce con la sua scomparsa.
 

In effetti oggi non vedo “Olivettismo” né esplicito né latente. Le formidabili innovazioni di prodotto, la cura del design, la grande attenzione al lavoro manuale e al tempo stesso la preoccupazione per dare un senso anche alla vita fuori dal luogo di lavoro. Quasi una “missione” da compiere che non tiene solo conto dell’obiettivo di produrre e guadagnare. Come si misurano oggi le grandi imprese con i grandi temi affrontati da Adriano e prima ancora da suo padre Camillo? 

Nelle diverse realtà, ancora oggi, quando si parla di cultura industriale sento più spesso evocare Olivetti e molto meno Agnelli o Pirelli, per citare due grandi imprenditori. Anche molti piccoli e medi imprenditori avvertono quel richiamo. Perché se ne parla, se poi non ci sono conseguenze?
 

L’Olivettismo è un modello “astratto” ovvero una realtà esistita solo in quel periodo storico sino al 1960, anno della morte di Adriano. È un modello incarnato nella storia, ovvero che nasce dalle specificità dello stesso Adriano, che contempla anche la sua antropologia e le sue esperienze intellettuali e culturali tipiche del laicismo e dell’ebraismo di Torino e della Ivrea dell’epoca. Si tratta dunque di una esperienza ormai terminata. Sono importanti i confronti con altre esperienze contemporanee e radicalmente diverse, come lo sviluppo della FIAT. Adriano applicava il fordismo, ma ne voleva mitigare gli effetti sull’uomo inteso nella sua globalità, mentre nella FIAT degli Agnelli questa sensibilità non era prioritaria; qui si replicavano i modelli organizzativi tayloristi e fordisti che hanno reso grande l’industria americana dalla quale prendeva esempio la FIAT. È evidente che cambia l’approccio; la riflessione sociale di Olivetti non faceva parte della cultura di quasi tutti gli altri imprenditori italiani e non solo di quell’epoca. 
 

Una cosa straordinaria dell’Olivettismo è la notevole attenzione posta (ancora più che agli operai) ai manager incaricati di gestire le diverse aree dell’azienda, non solo quelle tecniche. La cultura manageriale forgiata in 50 anni di vita aziendale è sopravvissuta al pari di una diaspora per un lungo periodo, ma oggi non c’è quasi più traccia e infatti stiamo vivendo una crisi manageriale. È importante che le grandi imprese si preoccupino di generare cultura gestionale. Oggi si fa un gran parlare di Academy molto impegnate “nell’aggiornamento” tecnico e culturale e forse meno su quello della cultura gestionale. 
 

Rispondo raccontando il caso di Natale Capellaro, figlio del “ciabattino” di Ivrea, l’operaio divenuto ingegnere (honoris causa) un grande cultore di meccanica e uno dei più grandi geni della meccanica della Olivetti. È un esempio di “migliore condizione per un’ascesa sociale, culturale e manageriale”. Oggi forse bisognerebbe impegnare maggiori energie nei meccanismi di formazione interna e favorire il superamento del confine tra la teoria e la prassi che consentiva a chi, nonostante non avesse un titolo di studio “adeguato”, di diventare direttore tecnico di una delle maggiori aziende meccaniche del mondo.

Con riferimento al tuo recente libro su Adriano, mi sento di dire che hai prodotto un libro “a tesi” supportato da ampi riferimenti storici un lavoro davvero importante. La tesi che sostieni (con dovizia di particolari storici) porta il lettore a maturare un giudizio critico sulla famiglia Olivetti, dedita a prelevare ricchezza dall’Azienda senza troppo sacrificarsi quando invece era necessario apportare capitali. Insomma, attorno ad Adriano c’erano manager entusiasti e forse pochi familiari consapevoli del ruolo che la loro azienda stava svolgendo nel mondo.

È certamente una critica al modello del capitalismo familiare che si replica in alcuni meccanismi in modo quasi identico nella media e nella grande impresa. È un problema di modello, non tanto un giudizio storico su una persona o su una famiglia. Ho ricostruito i fatti interni ad una famiglia che nel corso del tempo ha assorbito ingenti risorse attraverso i dividendi. È uno dei grandi temi che riguarda le imprese familiari in tutte le sue forme (ivi incluse quelle più piccole). Spesso non vi è consapevolezza del contenuto “sociale” dell’impresa che non può essere ricondotta solo alle variabili economiche. Quello che conta è avere la consapevolezza che ciò che si fa va a finire “nella vita degli altri” ed è necessario e doveroso a un certo punto - per chiunque operi nel business - porsi la questione della successione generazionale. Adriano Olivetti è l’esempio delle conseguenze negative, se non si affronta questo cruciale tema. Anche se, per storicizzare bene il caso di Adriano e della Olivetti, va sottolineato come non fosse semplice, per gli Olivetti, avere a che fare con Adriano. Un esempio su tutti: Adriano per tutta l’ultima parte della sua vita, dal 1945 al 1960, ha l’ossessione della fondazione: una fondazione a cui conferire la proprietà dell’azienda, che sarebbe diventata appunto un bene in mano a questa fondazione controllata da enti pubblici, università, lavoratori, ex proprietari. Ma, appunto, ex: questo progetto non andò mai in porto. Ma, dal punto di vista storico, è anche comprensibile che i familiari di Adriano non abbiano mai accettato di spossessarsi della proprietà dell'azienda.

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