Mario Curnis: sul tetto del mondo

Ho incontrato Mario Curnis, uno dei più forti alpinisti italiani di tutti i tempi nella sua bella baita sui monti attorno a Nembro (Bergamo).
Oggi ha 86 anni portati alla grande; sembra che le grandi scalate di cui è stato protagonista non abbiano lasciato traccia. Nel 2002, a 66 anni ha scalato l’Everest insieme ad un altro importante alpinista, Simone Moro, di quasi 30 anni più giovane di lui; è stata una impresa storica perché nessuno prima di lui ha raggiunto il tetto del mondo a quella età.
Con questa intervista ho cercato di cogliere dalla sua grande esperienza gli aspetti “etici e manageriali” delle spedizioni europee ed extraeuropee sulle vette del mondo oltre gli 8000 metri.
Lo ringrazio per la sua disponibilità.
P.S.: Nei giorni di questa intervista è uscito il suo secondo libro di ricordi: “DICIOTTO CASTAGNE: la montagna, il bosco, la felicità” edito da Rizzoli, Milano.
Nembro, febbraio 2020 eravamo qua a casa tua e parlavamo di montagna mentre fuori la “bestia” della pandemia stava già lavorando. Dopo due anni, eccoci di nuovo qua, fiduciosi di averla sconfitta. Proprio per questo voglio parlare con te, del tuo passato, ma guardando al futuro. Nella tua famosa lettera alla montagna hai detto “montagna per me tu sei stata una fede”: cosa significa avere fede in qualcuno, in qualche cosa e perché dobbiamo avere una fede per guardare al futuro?
Fede per me vuol dire avere “fiducia” in noi stessi prima di tutto e “speranza” senza mai lasciarsi andare anche quando sembra che il mondo ci cada addosso. La montagna, per me, è maestra di fede ed è lei che ci dice sempre: “se mi vuoi io sono qua. Se hai coraggio affrontami io ti rispetto, affrontami ma se non sei capace lascia stare”. Molte persone e amici non ci sono più perché non hanno saputo ascoltare questi moniti. Avere fiducia in se stessi non vuol dire andare avanti sempre in modo incosciente ma muoversi quando siamo pronti, quando le nostre forze fisiche e mentali sono ben allenate.
Hai fatto molte spedizioni, alcune con molte persone altre con poche. Ad esempio: quella del 1973 vedeva schierato un “esercito” (in senso letterale del termine) mentre quella del 2002 era composta da due persone: tu e Simone Moro più pochi sherpa. Entrambe avevano il medesimo obiettivo. In cosa sono uguali e in cosa sono diverse queste due spedizioni dal punto di vista “organizzativo” e dal punto di vista della “motivazione”.
Sono state spedizioni diverse. La prima era una spedizione “ricca” e dal punto di vista organizzativo è stata maestosa (basti pensare che uomini e mezzi sono stati trasportati con tre Hercules e al campo base c’erano a disposizione due elicotteri). Il risultato e le motivazioni sono evidentemente diversi. Purtroppo, nel 1973, non mi hanno permesso di arrivare in vetta per ragioni “clientelari” (come spiego anche nel mio recente libro pubblicato da Rizzoli) ma la mia “fede per la montagna” mi ha dato la forza di continuare a desiderare l’Everest e dopo quasi 30 anni (una vita) e senza chiedere niente a nessuno ci sono risuscito. Con Simone la “complicità tra generazioni” è stata vincente. Io la storia e l’esperienza, lui la preparazione e le capacità tecnologiche. Questa storia ci dice che si può raggiungere lo stesso obiettivo con due modelli organizzativi diversi ma soprattutto con motivazioni diverse. Il rapporto tra risorse disponibili e motivazione è fondamentale in ogni impresa: se non c’è motivazione personale e “spirito di squadra”, occorre poi introdurre ingenti mezzi e risorse (anche economiche) che si potrebbero risparmiare (almeno in gran parte) con la fede individuale e collettiva nell’obiettivo da raggiungere.

La tua vita è stata segnata anche da momenti molto difficili. In questi casi il rischio è di perdere la fiducia in sé stessi e qualche volta di non trovare la forza per andare avanti. Nella tua esperienza come ti ha aiutato la “fede” nella montagna a superare questi ostacoli?
Alcuni anni fa ho attraversato un momento molto difficile. Il fallimento della mia azienda. L’unica cosa che ho fatto, grazie a mia moglie Rosanna, compagna di vita alla quale devo tutto e che in quel momento mi ha capito, è stata quella di partire in solitudine verso la mia amata montagna nonostante avessi anche scoperto di avere una grave malattia. Mi sentivo perso e avevo bisogno di “riflettere sui miei errori” per ritrovare la strada. Sono stato più di un anno da solo, in un pascolo alto con 100 capre e ogni giorno è stata una continua riscoperta di me stesso. La sera stavo seduto fuori dalla baita e in lontananza vedevo una piccola luce accesa. Era chiaramente una qualche piccola abitazione; questa abitudine mi dava la sensazione che ci fosse una speranza. Dopo qualche giorno, con il cannocchiale mi sono accorto che le luci erano diventate due e non capivo. Pensavo di essere impazzito. Ho aperto la finestra e mi sono accorto che in concomitanza con l’accessione della mia luce si spegneva una di quelle che vedevo e allora ho capito che non ero solo ma c’era qualcuno che mi guardava. Qualche giorno dopo nei pascoli ho incontrato un signore con delle mucche; ci siamo guardati e sorridendo lui mi disse: ma tu sei quello del lumino? Ci siamo abbracciati. È stato un piccolo gesto di speranza e di “ripresa” che mi ha fatto capire che non siamo mai soli. Quando sono tornato ero più forte di prima e avevo ritrovato me stesso. Oggi la mia vita è molto più semplice ma sono felice.
Dalle parole che spesso hai ripetuto in questa intervista si capisce che un aspetto sempre presente è stato quello della “ripartenza” e mi viene in mente che anche oggi stiamo cercando di ripartire dopo due anni di Covid. La tua fede ti ha portato a 66 anni “sul tetto del mondo” perché hai mantenuto vivo un sogno, un obiettivo, una passione. Nel tuo libro “in cordata” hai parlato di legame tra generazioni, per questo ti chiedo: oggi, quale è il sogno che consigli alle nuove generazioni provate dalla pandemia?
Io avevo una “visone” come tutti quelli della mia generazione, unita alla fede nella montagna. Mi piacerebbe che i giovani di oggi guardassero avanti anche loro con una visione e credo che la scuola e chi ha responsabilità di governo debbano ridare ai nostri giovani questi obiettivi collettivi per raggiungere importanti traguardi. Penso che questo oggi manchi. Nel 1949, a 13 anni facevo già il muratore e nella mia “schiscetta” mia mamma mi metteva ogni giorno 18 castagne e un po' di pane e questo era il mio pasto quotidiano perché di più non si poteva. Ma io sapevo che stavo lavorando per un “miglioramento continuo” che si vedeva, che potevo constatare quasi giorno per giorno perché poi ho potuto comprare le prime scarpe e …qualche castagna in più. Oggi purtroppo mi sembra che tutto sia scontato, quello che si desidera c’è già e se non si riesce ad ottenerlo è sempre colpa di qualcun altro: del papà che non è ricco a sufficienza, della sfortuna o di chissà cosa. Io non ho mai pensato di essere sfortunato e questo mi ha consentito di avere una vita dura, difficile, ma felice ancora oggi.
Infine, una domanda molto semplice, e mi devi dire la verità: quale è la tua prossima scalata?
Quando mi “abbasso” in valle divento nervoso. La mia prossima scalata è rimanere qui, nella mia amata baita con mia moglie Rosanna perché qui sono me stesso e vivo la mia vita. A 86 anni è difficile immaginare di rifare grandi scalate ma potrebbe esserci, chi lo sa, ancora un 6.000 magari anticipato da un 5.000. Mi riferisco all’Alpamayo nelle Ande peruviane. Senza dubbio tra le montagne che ho scalato è la più bella.
Grazie Mario ci rivediamo in Perù.
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